E niente Stefano Amerighi o lo ami o lo odi. Non ci sono vie di mezzo. E’ l’espressione più pura e reale non solo di un nuovo modo di fare di vino, ma soprattutto di interpretarlo, recuperarlo, raccontarlo, farlo assaggiare, emozionando.
Lui fa agricoltura biodinamica sull’ultima collina di Cortona, a Poggiobello di Farneta, al confine con Foiano della Chiana. Dove, tra l’altro, è nato.

Lui è lì con un misto di calma e pigrizia, tutta “bio”, per intendersi, che ti osserva e ti spiega. Inseparabile da quel sigaro toscano che ne delinea i tratti. Illustra con meticolosità, intervallata da qualche battuta, perché lui il vino lo fa così. E basta.
Nella sua azienda ospita anche vitelli di Chianina, la razza pregiata e rappresentativa della zona, “perché fanno bene alla fattoria e a me – ha detto. Quella che inseguo è una pratica naturale come alternativa all’agricoltura convenzionale attraverso la coltivazione anche di cerali, ortaggi e frutti”.
Non cerca consensi e gloria, è così. Naturale. In un mio articolo, qualche tempo fa, l’ho definito il neo hippy del vino italiano e credo che miglior definizione non ci sia per descrivere come e con quale rispetto lavora in natura, e tira fuori dei vini talmente originali e personali da spaventare. In senso buono, sia chiaro.
Come l’ultimo assaggio, Noè, Pecorino , concessoci in anteprima durante una serata a Lucca, una città a cui si dice molto legato, per festeggiare i dieci anni di Apice, la sua Syrah superiore, se si può dire. Fatta solo nelle annate in cui è possibile raggiungere un Apice. Pochi amici in un tavolo rotondo al ristorante Giglio, persone che lo hanno visto crescere professionalmente e poi gli ospiti della serata.
Tornando al Pecorino, la storia è suggestiva e piena di emozioni, le emozioni alle quale ormai ci ha abituato. Contro un’idea forse un po’ troppo stereotipata ma che comunque a lui stava stretta, di produzione.
Dal 2012 ha iniziato a lavorare con lo scrittore Maurizio Silvestri in una vigna a 800 metri sul livello del mare.
Nel mezzo il terremoto. Siamo ad Arquata del Tronto, una zona, un tempo piena di vigneti. Noè era il nome del proprietario della vigna più grande scoperta. Il resto è Amerighi, metodo più che tradizionale che contempla la pigiatura coi piedi. Assaggiamo la 2015 dopo che il terremoto ha distrutto quello che di buono era stato creato. Ma Amerighi non si arrende.

Il vino, in bottiglia da aprile, espleta sentori di erba, fieno, fiori di campo. Ampio, roccioso, minerale e sapido. A tratti marca con punte di piccante. Un vino salino e vivo, di grande interesse e chiaramente di personalità estrema.
VERTICALE APICE Syrah in purezza
2008 Inizio toscano in syrah con frutto come cherry e sempre una consistevole persistenza.
Ci hanno servito Tartare di capra, aringa, rapa rossa, rafano e crème fràiche
2010 Una vendemmia ispirata dalla nascita della figlia. Cambio di tempi di fermentazione (2008 più corta, classica). Senza travasi e solfiti. “Un colpo di fortuna, come lo definisce lui, da poco rientrato dal Rodano. Un vino che racchiude selezioni fatte da più parti. Parte l’evoluzione. Un naso che attacca di punta. Fa capolino il sentore animale. D’impatto. Si snoda in bocca corposo, succoso e sensuale, rilasciando una bella freschezza. Pulito in uscita.
Ci hanno servito Sedano rapa, gorgonzola, capperi di sambuco e caviale di muggine
2011 un’annata più difficile, l’ultima senza il grappolo intero. Naso più cupo, che non si concede e in bocca il tannino si fa più duro. Emerge la punta peposa e ferrosa
Ci hanno servito Spaghetti affumicati e ostriche
2013 La prima annata in cui si spinge di più sulle macerazioni. Senza solforosa. Un vino più diretto, che racconta al meglio il percorso compiuto e voluto da Amerighi. Ne esce integrità di prodotto, generosità all’olfatto e all’assaggio. In bocca gira con piacevoli sentori di grafite. La miglior espressione degli assaggi. Spinge sull’acceleratore.
Ci hanno servito Grissini bolliti di ragù di frattaglie di coniglio
2014 Si presenta con un colore più trasparente. Evoluzione compiuta, a tutto raspo. Caratterizzata da note affumicate che inebriano al primo naso. Ma anche carne cruda, tabacco. Bocca piacevole e armonica, stacca in acidità. L’approdo di Amerighi in fatto di Apice.
Ci hanno servito Petto di colombaccio in civet al whisky torbato
Gelato al Saké, daikom e ibisco
Un plauso al team giovane del ristorante il Giglio di Lucca, molto attento e preciso nel servizio. Ha composto un menù in totale sodalizio con i vini offerti. Non ha sbagliato un colpo. Energia, estrosità ma anche classicismo. Con quel pizzico di allegria e gioia di cucinare che non guasta anzi necessita. Bell’atmosfera e buona cucina.
FOTO DEI PIATTI IN ACCOMPAGNAMENTO
Completa l’assaggio e la cena un magistrale piatto di pasta cacio & pepe dalle mani dello chef romano nascosto in cucina…

Piatti molto belli di che ristorante si tratta?
Il Giglio di Lucca. C’è scritto alla fine. grazie 😉