La storia di imprenditrice vitivinicola di Mariuccia Borio inizia nel 1970, quando alla morte del padre eredita parte di Cascina Castlèt, circa 5 ettari (20 totali che il nonno aveva diviso tra i 4 figli maschi). Le donne erano escluse dall’eredità della terra, la terra la portavano solo in dote. Per Mariuccia, figlia unica, non c’era altra soluzione. Da allora gli ettari sono cresciuti. Oggi sono 31 ettari di vigna a Costigliole d’Asti, comune tra il Monferrato e la Langa, tra i filari della Barbera d’Asti. Trenta ettari di vigna che racchiudono un sogno diventato progetto, un progetto che nasce da due idee semplici: rispettare la natura ed essere al passo con la tecnologia. Mariuccia ha scommesso sulla terra, principalmente sui vitigni locali come la Barbera, il Moscato, l’Uvalino, ma anche Chardonnay e Cabernet, vitigni che fin dall’Ottocento sono presenti a Costigliole.

La sua passione per la viticoltura la spinge “alla ricerca” continua… una storia, la sua, di artigianato e autoctonia. All’inizio di questo progetto avevo una  personale idea del posto più bello del mondo e ho cercato di ricrearlo per poterci vivere. Nel 2020 saranno 50 vendemmie e posso dire che ricerca e tecnologia sono sempre state alla base della mia idea di viticoltura. La ricerca perché ti porta a comprendere e a migliorarti; la tecnologia perché ti aiuta a lavorare in modo più sostenibile e a gestire i consumi. Utilizziamo l’acqua delle sorgenti e l’acqua piovana raccolta nelle cisterne. La cantina è dotata di un impianto di fitodepurazione delle acque reflue. È una vasca fatta di canne che hanno il compito di filtrare e depurare. Intorno si crea un ambiente naturale dove vivono le rane e i ricci. L’acqua sta diventando una risorsa importante: l’acqua depurata si riutilizza per l’irrigazione.

Al centro della sua ricerca c’è senz’altro l’Uvalino. Ci racconta la storia di questo vitigno e il progetto che vi ha creato attorno.

L’Uvalino era un vitigno ormai dimenticato. Quasi nessuno più ricorda di quando per i monferrini una bottiglia di Uvalino era un orgoglio, un vino di lusso da regalare per fare bella figura, con il podestà, il prete, il farmacista. Le famiglie più abbienti lo bevevano passito, come segno di distinzione, come uno status symbol. Un vino quasi scomparso, che fino alla metà del Novecento era prodotto da tutte le cantine della zona di Costigliole d’Asti: non esisteva cantina, per quanto piccola, che non producesse Uvalino. Cascina Castlèt ha sempre avuto nella memoria, e nel cuore, questo vitigno. Ventinove anni fa ho deciso di finanziare la ricerca universitaria per custodire e tramandarne la coltivazione. Una ricerca che è stata sì un importante investimento economico, ma soprattutto di credibilità.

Lei ha contributo alla sua rinascita? Sì e ho avuto il sostegno di tante persone: il professor Lorenzo Corino, ex direttore dell’Istituto di Viticoltura di Asti, con cui iniziammo le prime ricerche in vigna. Poi le prime micro- vinficazioni sperimentali con l’enologo Armando Cordero, continuate con il mio enologo Giorgio Gozellino, lo storico Gianluigi Bera, il Prof.Rocco Di Stefano, la Dott.ssa Daniela Borsa e il Dott. Federico Piano dell’Istituto di Enologia di Asti. Ancora il Prof. Aldo Bertelli e il Dottor Morelli del Dipartimento di Farmacologia Università di Milano, il Dott. M.Falchi del CNR Istituto di Scienze e Tecnologie Molecolari Università di Milano. Nel 1992 impiantammo il primo filare. Oggi ho circa un ettaro e mezzo di Uvalino, in due vigneti. La prima annata in commercio fu la vendemmia 2006: uscì nel 2009, produco circa 5 mila bottiglie. Il progetto fu presentato dalla Dott.ssa Daniela Borsa, nel giugno 2003 in occasione del VII International Symposium of Oenology di Arcachon, organizzato dall’Università di Bordeaux, dove vengono presentate le più importanti ricerche europee in campo vitivinicolo. L’iter burocratico per rendere l’uvalino un vitigno riconosciuto e permesso è durato alcuni anni. Il 16 luglio 2002 la Gazzetta ufficiale ne ha sentenziato la rinascita.

Il Monferrato come sta vivendo i cambiamenti climatici?

È una sfida che tocca tutti. Per quanto riguarda la viticoltura, noi utilizziamo delle moderne tecniche colturali come la crescita delle erbe spontanee nei filari che mantengono l’umidità in caso di caldo intenso e non permettono gli smottamenti se piove forte. Altra tecnica sono le rese basse delle uve che vengono controllate con il diradamento e l’esfogliazione tardiva dei filari: in questo modo la vite si adatta meglio alle estati calde e viene protetta in caso di violenti temporali o grandinate.

Che tipo di Piemonte rappresenta la sua azienda?

Tradizionale ma che guarda al mondo e accoglie. Una terra dove si sta bene. Si mangia, si beve, si fa cultura, ci si diverte.  Bruno Lauzi dei piemontesi diceva “sono dei brasiliani con la nebbia dentro”. Apparentemente schivi ma dotati di una sana follia.

Spesso si parla del Monferrato associandolo a vini molto complessi, strutturati e meno immediati, che ne pensa? Penso che il Monferrato abbia bisogno di comunicare di più e meglio. Abbiamo tante cose belle e vini che piacciono molto. Dobbiamo imparare a dirlo.

E delle varie diatribe che sorgono in questi ultimi anni tra vino bio, naturale, convenzionale? Lei come si classifica se lo fa…  La nostra è un’agricoltura di buon senso in cui da sempre cerchiamo di limitare al massimo i prodotti fitosanitari e non spingiamo le colture con concimi chimici limitandoci solo all’uso del letame in fase di impianto dei vigneti. In cantina, utilizziamo anidride solforosa a valori più bassi di quello che la legge comunitaria permette al vino biologico. Penso che sia fondamentale avere un grande rispetto della terra. Dal 1995, nelle nostre vigne, abbiamo messo decine di nidi artificiali di varie forme e materiali adatti ad essere abitati dagli uccelli. L’azione dell’uomo ha spesso ridotto la biodiversità e tolto spazi (per lo più siepi e cavità di vecchi alberi) dove molte specie di uccelli erano solite nidificare e trovare rifugio. Le nostre vigne, con i nidi artificiali, perfettamente inseriti nell’ambiente, sono diventate un buon habitat per molte specie: storni, passeri, cince, codirossi, picchio. Abbiamo anche favorito la presenza di rapaci notturni e pipistrelli per contrastare la presenza di piccoli roditori, attivi soprattutto di notte. Dall’anno scorso ho un progetto con i futuri agronomi dell’Istituto Agrario Penna di Asti per mappare tutti gli animali che vivono in vigna e gli alberi. Chi si diploma oggi non deve avere solo conoscenze agronomiche ma anche massimo rispetto per le piante e gli esseri viventi.

Di cosa ha bisogno il Monferrato, a suo avviso?

Il Monferrato ha la fortuna di avere una bella biodiversità nelle colture. È una terra che si presta alla coltivazione della vigna, ma anche della frutta, del nocciolo e all’allevamento. Il Monferrato deve capire che non si compete più con la massa, ma occorre darsi un posizionamento in una nicchia di qualità. Bisogna creare valore e andare a soddisfare una serie di bisogni anche immateriali delle persone.

Cosa c’è nel futuro della sua azienda e della Denominazione?

L’enoturismo. Sto per completare la nuova sala degustazione e il wine shop. Sarà pronto prima dell’estate. Sarà un luogo dove il vino diventa la cultura. La cantina va vissuta come un momento di incontro e di confronto.

 

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