Si è formato a fianco al padre Michele. Una delle figure più carismatiche e innovative del panorama vitivinicolo bolgherese. Nonché tra i precursori storici del fenomeno Bolgheri. Giacomo Satta, classe ’91, è pronto a lanciare una nuova scommessa, in fatto di vino. Fiero e convinto delle potenzialità del Sangiovese, in linea col padre, in un territorio che invece ha fatto del taglio bordolese il biglietto da visita più rappresentativo nel mondo. Lancerà nei prossimi mesi una nuova etichetta, un nuovissimo Bolgheri Superiore metà Sangiovese e metà Syrah, affinato in anfora. Si tratta di Marianova 2015, prodotto bio. Per adesso solo 600 bottiglie.
Il vino che sposa la tradizione aziendale e le convinzioni di casa Satta del Sangiovese, ma che rompe gli schemi. Un Bolgheri Superiore a maggioranza Sangiovese… una scelta coraggiosa. Ce la racconta?
Marianova sarà 50% Sangiovese, 50% Syrah. Il disciplinare permette di fare un Bolgheri senza vitigni bordolesi e ho colto la palla al balzo. Eredito in toto la visione di mio padre che già ha fatto un 100% Sangiovese e un 100% Syrah entrambi IGT. Se c’è un marchio di fabbrica in questa azienda sono questi due vitigni. La possibilità di fare un vino che raccogliesse la tradizione aziendale e la proiettasse nella Doc mi ha attratto dal primo minuto. Questo vino è la sintesi di ciò che penso di Bolgheri: grande ampiezza aromatica e al tempo stesso bevibilità. E’ una scelta coraggiosa ma non la sento in controtendenza. Anzi, credo proprio possa esserne un’interessante variabile. Questi due vitigni stanno molto bene insieme, mi piacciono davvero tanto e credo siano in linea con l’evoluzione che questo territorio sta avendo. La 2017 sarà completamente affinata in anfora da 750 Lt. Anche questa è una scelta un po’ controcorrente, ma se devo produrre un Bolgheri che mi rispecchi, voglio esaltare la frutta e la croccantezza. Queste due varietà, il Sangiovese e il Syrah, perlomeno a Bolgheri, amano un materiale di affinamento che traspiri, ma con il legno rischiano di irrigidirsi. Ecco perché l’anfora. Mi esaltano queste due uve perché sono in grado di leggere e trasferire nel vino tutte le variabili a cui sono soggette: clima, terreni, forma di allevamento, densità, vinificazioni ecc. C’è qualcosa di più divertente e appagante che vedere in una bottiglia tutta una annata e il tuo lavoro?
Quando esce? Come è stata vista questa novità?
Uscirà a settembre e purtroppo con pochissime bottiglie. E’ stata accolta con entusiasmo da tutti coloro che hanno assaggiato il vino. Credo che la gente abbia veramente voglia di bere vini autentici e unici, figli di una storia ben precisa.
Com’è stata la crescita in azienda a fianco di uno dei precursori del fenomeno Bolgheri?
E’ stato crescere con a fianco un maestro da cui ho imparato e sto imparando molto. Non tutti hanno questa fortuna quando si affacciano al mondo del lavoro. La storia e gli inizi di Bolgheri come zona vitivinicola la conoscono in pochi. Poter fare vino avendo questa memoria in azienda dà senz’altro un’altra coscienza rispetto a quello che si sta facendo.
Il suo distacco, in senso professionale, quando ha deciso di prendere la tua strada…
Non lo intenderei tanto come distacco, bensì come evoluzione. Spesso la gente dimentica che per fare grandi vini occorrono decine e decine di anni, durante i quali si mettono a fuoco le potenzialità e i limiti della zona in cui lavori. Mio padre mi ha sempre detto: “abbiamo un esperimento all’anno, una sola vendemmia, dopo trent’anni avrai fatto trenta esperimenti”. Per chi conosce la statistica un campione di 30 unità è da considerarsi poco significativo. Guardo la Francia, in special modo la Borgogna dove ci si può affidare, in alcuni casi, a più di mille anni di vinificazioni e vendemmie. Quella è una storia solida.

La prima generazione a Bolgheri è andata all’avanscoperta, ognuno seguendo le proprie intuizioni, anche perché il terroir lo ha permesso. Noi figli abbiamo bisogno di sintetizzare tutte le diverse esperienze in una espressione di vino comune. Ho compreso la mia strada quando ho capito di essere innamorato del vino. Da quel momento ho iniziato a capire quali vini mi corrispondevano di più e quali vini avrei desiderato fare. Non credo sia giusto, per nessuno dei figli di un produttore, replicare a vita ciò che ha fatto il padre. Il vino può essere la fotografia della personalità di chi lo produce. Abbiamo questa grande fortuna, non sprechiamola facendo vini “di altri”.
Bolgheri è cambiata molto… in che direzione sta andando…
Bolgheri, a mio parere, ha vissuto un primo periodo entusiasmante negli anni Novanta, dove i produttori erano più liberi nel produrre vini di personalità. Successivamente poi, negli anni 2000 siamo stati preda dell’avvento della tecnica, del vino fatto per il mercato, che ha mistificato l’identità di tutti, portando anche alla diffusione di pratiche in vigna e in cantina che adesso sono invece messe in discussione. Bolgheri attualmente rivive un bel periodo, dove stiamo maturando e siamo più coscienti dei vini che vogliamo fare e della viticultura adatta per farlo. Come ho già detto servono anni, anche segnati da approssimazioni ed ingenuità, per fare grandi vini. Credo si stia abbandonando l’idea che un vino debba essere necessariamente concentrato e alcolico per essere definito complesso. Bolgheri ha la fortuna di produrre vini con un’ampia complessità aromatica e un equilibrio nelle componenti tanniche ed alcoliche difficile da trovare altrove con uve internazionali. C’è bisogno di valorizzare queste caratteristiche uniche. Alcool, legno e concentrazioni si possono reperire in qualsiasi vino in qualsiasi parte del mondo. Personalmente mi sforzo di fare dei vini eleganti, fini che portino nel bicchiere dei mazzi di fiori più che martelli pneumatici, cerco la finezza non certo la stratificazione. L’estratto è ottenibile per via progettuale. La finezza non si inventa in cantina.
Cosa può portare e cosa serve oggi?
Si dice sempre che la seconda generazione mantiene diligentemente quello che ha fatto la prima. Sarebbe un grave errore. Ogni generazione deve sentire proprio il vino e lo deve reinventare. Bisogna che dietro i vini ci sia una testa, una personalità, non la copia sbiadita del genitore. Per far questo bisogna aprirsi al mondo, viaggiare e bere tanti, tanti vini. Abbiamo un disperato bisogno di qualcosa di unico quando beviamo un vino, di conoscere qualcosa o qualcuno. Posso portare tutto il mio entusiasmo e la mia visione del vino e dei miei gusti. Questa è la grande fortuna di due generazioni che si susseguono: quattro occhi e non due che osservano 40 anni di storia. Nel mio caso fortunato gli occhi sono 6, dato che lavoro ogni giorno assieme a mio cognato Fabio Motta nelle mie e nelle sue vigne. Mi ritengo un privilegiato.
Lo scatto generazionale, lo scontro, il cambiamento, l’acceleratore … che direzione sta prendendo il vino…
Ho ereditato il gusto per il vino fine e l’amore per il Sangiovese. Mio padre c’ha visto lungo utilizzandolo anche nei tagli bordolesi, li rende un po’ più vivi e ampi, meno stratificati. Non invento niente di nuovo, ma cerco di sviluppare meglio la sua intuizione. Sto iniziando ad usare il cemento non vetrificato e anfore cotte a 1200 gradi anche per gli affinamenti. Non è obbligatorio l’uso del legno per favorire l’espressione aromatica di un vino, sto provando nuove strade. Non sempre sono necessari due anni di invecchiamento in barriques, il Cavaliere 2016 è stato 6 mesi in legno e 6 in cemento e poi l’ho imbottigliato perché avevo paura di perdere freschezza. Il vino sta prendendo una direzione che mi piace molto, anche se c’è ancora molto da fare.

La conversione biologica -biodinamica ce la racconta?
La viticultura biologica e biodinamica mi piacciono molto. Mettono al centro le esigenze reali della pianta e la sua espressività. I terreni sono più ricchi di acqua e sostanza organica e gli effetti sulla pianta si vedono subito. Il rischio della biodinamica è farla diventare una sorta di esperienza spirituale, dove si affida ad un’etica lavorativa il senso della vita. Non faccio biodinamica per stare meglio con me stesso, ma per far stare meglio la vite e possibilmente fare vini più buoni. E’ una frontiera molto interessante che merita anni di sperimentazione
La nuova cantina, nuovi vini, nuove filosofie . Il Satta di domani … cosa c’è nel futuro?
Mi piacerebbe davvero esprimere le potenzialità di Bolgheri che, a mio parere, sono ancora un po’ imballate da alcuni pregiudizi o retaggi del passato. Non abbiamo ancora capito la grande potenzialità che i bianchi hanno qua. Quando ho assaggiato a Novembre un superbo Grattamacco bianco ’88, di sole uve Trebbiano, ho capito quanto tempo abbiamo sprecato finora non impegnandoci a fare grandi bianchi. Li abbiamo sempre sminuiti culturalmente e a torto.Vorrei poter comunicare che a Bolgheri ci sono dei vignaioli, che lavorano giorno per giorno la propria vigna, che fanno vini espressivi e non confezionati. Sono pieno di speranze, i miei coetanei di oggi che lavorano nelle cantine sono molto preparati e hanno voglia di mettere le mani in pasta e sono un po’ più liberi da certi schemi. Vedo un futuro in continua evoluzione.
